Da una chiacchierata con Antonio Ghirelli, Pier Paolo Pasolini ci spiegò cos’è Napoli e i napoletani…
In questo periodo, benché sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente, simpatici.
Essi infatti in questi anni – e, per la precisione, in questo decennio – non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo per me è molto importante, anche se so che posso essere sospettato, per questo, delle cose più terribili, fino ad apparire un traditore, un reietto, un poco di buono.
Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana.
Coi napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me.
Coi napoletani posso presumere di poter insegnare qualcosa perché essi sanno che la loro attenzione è un favore che essi mi fanno. Lo scambio di sapere è dunque assolutamente naturale. Io con un napoletano posso semplicemente dire quel che so, perché ho, per il suo sapere, un’idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto.
Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto.
Potrei continuare così per molte pagine, e, anzi, trasformare questo intero mio trattatello pedagogico in un trattatello dei rapporti tra un borghese settentrionale e i napoletani.
Pier Paolo Pasolini (1975)